domenica 15 marzo 2015

La festa mondiale del Pi greco, il numero più irrazionale !




Il 14 marzo 2015 è il Pi Day mondiale ! 
Cosa si festeggia? 
Ma la cosa più irrazionale di sempre, il numero irrazionale per definizione: la costante π (per gli amici: Pi greco)!


Il 14 marzo 2015 si festeggia in tutto il mondo il Pi Day, la festa dedicata alla costante matematica (o π) che a scuola viene insegnata per calcolare l’area del cerchio, ma che è anche molte altre cose: tecnicamente è il rapporto tra la circonferenza di un cerchio e il suo diametro. 
Questo numero si applica in matematica, geometria, trigonometria, fisica.


Il Pi Greco Day è una festa che nasce negli Stati Uniti: si festeggia il 14 marzo perché gli americani usano per le date il formato mese-giorno. 
Il 14 marzo diventa quindi 3/14, cioè le prime tre cifre del pi greco.

Alle 9 e 26 minuti e 53 secondi del 14 marzo 2015 è successa una cosa che non si verificava dal 1915: mettendo in fila le cifre della data, seguite da quelle che formano l’ora 9 e 26 minuti e 53 secondi, sono venute fuori le prime dieci cifre del π, cioè 3,141592653.

Cioè : 3 (marzo), 14 (giorno), 15 (anno), 9 (ore), 26 (minuti), 53 (secondi).  


Questo avvenimento può accadere soltanto durante il quindicesimo anno di ogni secolo e quindi si verificherà di nuovo soltanto nel 2115.

Il Pi Day cominciò ad essere celebrato nel 1988 da Larry Shaw, un fisico che voleva trovare una data per porre al centro dell’attenzione la matematica, una scienza che non trova spesso motivi per festeggiare. 


Il 14 marzo, inoltre, è anche l’anniversario della nascita di Albert Einstein. 



Poco a poco la cosa ha preso piede, tanto che oggi sono migliaia le iniziative in tutto il mondo organizzate per il Pi Day. Negli Stati Uniti, dove la festa è più sentita, si organizzano corse su una distanza di 3,14 miglia (5.503 metri), i fast-food offrono menù speciali a 3,14 dollari, e via dicendo. 

Negli Usa Pi viene pronunciato pai, allo stesso modo di pie, che invece significa torta


Ecco perché negli Stati Uniti il 14 marzo si trovano torte decorate con il π e la festa stessa è legata in modo indissolubile al concetto di torta (che tra l’altro è anche rotonda e quindi richiama il π che è il rapporto tra circonferenza e diametro). 


Nel 2009, il Congresso degli Stati Uniti passò una risoluzione in cui riconosceva il Pi Day e invitava gli insegnanti di tutto il paese a celebrarlo con iniziative opportune. 
Una delle attività che vengono praticate è quella di cercare di imparare più numeri possibile dopo la virgola. 
Dopo quel 14 che segue la virgola e che tutti si ricordano, infatti, c’è un’infinita lista di numeri: fino ad ora ne abbiamo calcolati dieci bilioni (detti anche dieci milioni di milioni).



mercoledì 11 marzo 2015

Via Montenapoleone, Milano..Il caffè Cova




A Milano "Cova" significa raffinatezza, tradizione meneghina, pasticceria storica della mitica Via Montenapoleone.


Le sue origini risalgono al 1817, quando fu fondato da Antonio Cova all'angolo di via Verdi e via Manzoni.


Le sue eleganti sale e il celebre giardino diventarono il luogo di ritrovo di politici e letterati della Scapigliatura, di pittori, musicisti e gente del mondo dell'editoria e del giornalismo.
Nel 1848 il Cova con i suoi avventori fu in prima linea contro gli Austriaci e nel 1868 ottenne l'autorizzazione della Zecca per coniare monete in argento con la dicitura "Caffè Cova Milano": distrutto durante la seconda guerra mondiale, il salotto meneghino fu ricostruito nel 1950 e trasferito, poco dopo, nell'attuale sede, in via Montenapoleone.
 


Da allora il Caffè Cova è diventato un'istituzione, ritrovo di patrioti delle Cinque Giornate, circolo di nobili, centro di tutte le riunioni e degli incontri serali.
 


Qui hanno sorseggiato il caffè Tito Speri, Cairoli, Mazzini, Garibaldi, il giovane di provincia Verga e Sabatino Lopez. 

Anche le riunioni del Rotary Club, fondato il 20 novembre del 1923 a Milano, iniziarono qui. 
Dal 16 giugno del '23 i membri del Rotary venivano convocati tutti i martedì alle 12.30 presso il Caffè Ristorante Cova.

martedì 10 marzo 2015

Bluetooth, Harald Blaatang, il Vichingo goloso di mirtilli






Ecco qui, in breve, la storia del re danese « Blootooh »( Dente Azzurro) Harald Blaatand (Aroldo di Danimarca)

Harald "Bluetooth" di Danimarca (in danese Harald  Blaatand), visse tra il 911 e il 985 (o 986) d.C. e fu il primo re che riuscì ad unificare il frammentario regno di Danimarca, che comprendeva anche Svezia e Norvegia

Un Vichingo molto intelligente e goloso di mirtilli...
 





Fu in grado di riunire popoli e terre fino a quel momento divisi dal mare e da tradizioni diverse, convertendoli al cristianesimo.  

Una delle eredità più importanti lasciateci da questo grande monarca è una grande pietra runica fatta erigere a memoria dei propri genitori, rimasto intatto fino ai giorni nostri e che è divenuta una delle più importanti reliquie cristiane dello Jutland del Nord. 



Tale megalite contiene le seguenti parole, scritte in caratteri runici:

« Harald il Re fece costruire questi monumenti a Gorm suo padre e Thyre sua madre, Harald che vinse tutta la Danimarca e la Norvegia e convertì i Danesi al Cristianesimo. »


Queste parole segnano la prima occasione in cui viene citata la Danimarca come entità politica, nella storia. Il suo soprannome, letteralmente dente blu, sembra derivasse dalla sua passione per i mirtilli.
 


Il soprannome Bluetooth è stato utilizzato per identificare la tecnologia per reti senza fili inventata dalla svedese Ericsson nel 1999.  


Infatti, ciò che fece Harald è molto simile a quello che fa un protocollo capace di mettere in comunicazione i dispositivi più disparati.



Anche il logo del Bluetooth è costituito dall'unione delle rune nordiche (Hagall e Berkanan) che corrispondono alle moderne H e B, iniziali di Harald Blaatand, il geniale re vichingo.


mercoledì 4 marzo 2015

Bye bye Hipster, benvenuti i Normcore o New Normal !


 
Il fenomeno hipster sta tramontando.

Williamsburg, il quartiere di Brooklyn, ospita su Bedford Avenue la più alta concentrazione di barbe lunghe, pantaloni stretti con risvolto, botteghe biologiche e digital divide (l’assenza di wi-fi nei bar è proposta come liberazione dalla schiavitù della connessione). 
E adesso si è aperto il negozio J Crew, al 234 di Wythe Avenue, che si rivolge a una clientela molto più vicina alle signore ben vestite di Park Slope che agli aspiranti artisti che passano le serate a bere e discutere a Union Pool con i soldi di papà. 
Commesse over 50, scaffali pieni di cachemire e manichini a forma di bambini che presentano gli stessi outfit degli adulti: tutto nel punto vendita del popolare marchio appare fuori contesto rispetto alle boutique di vestiti usati, cappelli a bombetta, pubblicazioni di poesia esotica e barattoli di marmellata usati come boccali di birra.




Sono lontani i tempi in cui i barbuti di Brooklyn sfidavano nudi in bicicletta il conservatorismo degli ebrei chassidici del quartiere e abbandonavano le galline in strada (il pollaio in casa è uno dei pilastri dell’immaginario neo-hipster): lì, come a East London o a Kreutzberg a Berlino, ormai c’è più glamour in una coda di cavallo ben portata che nella borsa vintage marrone di ecopelle contenente le bozze di un romanzo autobiografico. 

Tiziano Bonini, docente della Iulm di Milano e autore di «Hipster», un intelligente saggio sull’argomento, ha effettuato una ricerca su Google NGram Viewer per vedere la ricorrenza del termine nei testi di lingua inglese.

La parola hipster - che nasce negli anni Quaranta con gli afroamericani amanti del bebop che vestono in maniera eccentrica per distinguersi dai musicisti swing e, dopo la guerra, etichetta i bianchi che “scimmiottano” i jazzisti di colore - torna agli inizi degli anni Novanta per definire i 20/30enni che ostentano uno stile di vita «indipendente» che si manifesta innanzitutto attraverso radicali scelte di consumo e di moda. 

Il termine registra il suo picco di popolarità nel 2010 (si racconta che il responsabile della grammatica del New York Times quell’anno mandò una lettera di richiamo alla redazione che aveva utilizzato il termine più di 250 volte) per poi scivolare un po’ alla volta nel dimenticatoio lessicale. 
Questi sono gli anni della «normalità», celebrata in varie forme: dalla moda - vedi alla voce normecore - al cinema (i buoni sentimenti del film manifesto Boyhood) fino alla cultura pop, dove l’emaciata e strana Miranda July è stata superata a destra dalla simpatica neofemminista Lena Dunham. 
L’ennesima conferma del cambio di tendenza è arrivata con l’ultima campagna del marchio di abbigliamento Gap - «Dress Normal» - affidata alla regia della sofisticata Sofia Coppola che, in ogni movimento di camera, ribadisce il nuovo imperativo che sembra rubato ai fondamentalisti cattolici: la normalità è cool. 
Certo, il nuovo corso ha già i suoi critici. 
Sul NYT Vanessa Freedman l’ha definito «the new mediocre», la nuova mediocrità, denunciando l’incapacità della cultura contemporanea di inventare qualcosa di nuovo, dalla passerella ai romanzi e alla politica. 
Per la critica di moda della testata americana, tutto sarebbe ormai un mix di idee appartenenti al passato. 
Per dirla con un cantante italiano degli anni Novanta, ogni novità sarebbe «solo una copia di mille riassunti».


Chi sono i New Normal e i Normcore? Sono quelli che si sono stancati di essere hipster e anche quelli che non lo sono stati ma voglio riconoscersi in un’etichetta, loro non indossano abiti e accessori iconici degli anni Ottanta, vestono normale, come tutti, non vuol dire che vestano male o a casaccio, ma che indossano quello che preferiscono, che scelgono consapevolmente cosa indossare inseguendo un proprio stile, non quello altrui.

new_normal_stile

Cosa indossano i new normal e chi sceglie lo stile normcore?
Scarpe New Balance, t-shirt, ma non solo Fruit Of The Loom, felpe, camicie a maniche corte, jeans e pantaloni chino, fanno invece a meno di cravatte e papillon e accessori superflui vari; i loro brand preferiti sono Gap, Superdry, Birkenstock e in generale attingono da un guardaroba anni Novanta. 

Dunque, colmo dell'incoerenza, mentre da un lato si inneggia alla normalità, dall’altro si redige già un nuovo manifesto.

Chi sono le icone dei New Normal?
Probabilmente il caro Steve Jobs con il suo stile minimal e persistente, ma anche Mark Zuckerberg (che di recente ha dichiarato di possedere una sfilza di magliette tutte uguali perché non vuol perdere tempo decidendo cosa indossare ogni giorno fra tante cose diverse e Puffetta non gli dà torto), il conduttore di Man vs. Wild, Bear Grylls, addirittura Kate Middleton. 


Non mancano i riferimenti italiani, c’è chi riconosce in Matteo Renzi un new normal e, udite udite, Papa Francesco, perché ha rinunciato a certi eccessi e professa la semplicità.
Si dice che questa si una reazione ad una sovrasaturazione di moda derivante dalla sempre più rapida evoluzione le tendenze della moda, si dice che i New Normal siano stanchi di essere uguali a tutti e vogliono diventare uno su sette milioni, i principi e le motivazioni sono lodevoli e condvisibili, il problema è che come sempre anche se si parla di libertà ed individualità, si finisce a parlare anche di marchi, di conformismo, di idoli, oggetti iconici e regole di base, di un manifesto che mira a rendere tutti, almeno tutti quelli che decidono di avere uno stile normcore, uguali se non a tutti almeno a qualcuno. 

Insomma a me sembra non sia cambiato niente, almeno se non decidiamo di ignorare il manifesto collettivo e scegliamo di essere veramente “new normal”.


Ancora una volta, viene in mente un cantante italiano, Lucio Dalla, che in Disperato Erotico Stomp dichiarava quaranta anni fa «l’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale». Vero?

martedì 3 marzo 2015

La minimalista Charlotte von Poehl ha esposto a Barcellona


Lo spazio Greek di Barcellona ha accolto lo scorso 23 gennaio, nel suo showroom dedicato al design internazionale, la mostra Harlequins dell'artista franco-svedese Charlotte von Poehl
Classe 1966, nata a Lund in Svezia, Charlotte vive ormai a Parigi ed ha partecipato a numerose mostre in giro per il mondo.

Esponente della corrente minimalista ed allo stesso tempo insegnante di design, Charlotte von Poehl cerca in questa mostra l'avvicinamento e l'integrazione delle sue opere concettuali in un contesto di arredo contemporaneo, così come potrebbero coesistere all'interno di una abitazione, rompendo con l'immagine del museo o della galleria d'arte.

Le  opere proposte in questa occasione, raccolgono una selezione rappresentativa dei vari periodi creativi dell'artista, adattando a questo spazio opere già realizzate in precedenza, come per esempio, l'istallazione Newton, composta da centinaia di minuscoli blocchi di legno colorato, realizzati a mano e disposti al suolo in modo aleatorio in base allo spazio espositivo.



La fragilità dei moduli Newton sottolinea la volontà dell'artista di rendere ogni pezzo unico e prezioso.
Tramite il loro rapporto con lo spazio e l'armonia dei colori i moduli di Clara von Poehl esprimono una forma singolare di poesia.


La serie di disegni Harlequins si ricollega a Newton per la ripresa delle sequenze di colori, declinati su cinque toni di base ispirati al design scandinavo degli anni 60.
 
Pool of paillettes è una scultura in movimento, o meglio, una istallazione di paillettes bicolori. 
Grazie alla leggerezza del materiale la scultura cambia aspetto secondo il movimento del pubblico : quando ci si avvicina, si tocca e si scompone, anche involontariamente, l'accumulo di particelle, i riflessi di luce creati e proiettati attorno all'opera animano l' istallazione.

La mostra rimarra aperta al pubblico fino al 18 marzo nello Spazio Greek, Calle Bori i Fontestà 21, Barcellona. http://www.greekbcn.com/
 
Charlotte von Poehl sta attualmente preparando la prossima mostra nel Museo di Arte Contemporanea di Ystad in Svezia ed un nuovo libro con le sue opere più recenti.


domenica 1 marzo 2015

Les collections du Musée des Beaux Arts de Reims






Fondée en 1794 à partir des saisies révolutionnaires opérées sur les biens des émigrés et des collectivités religieuses, la collection du musée des Beaux Arts de Reims fut placée à l’Hôtel de Ville. 


Durant le XIXe siècle, dons et legs de collectionneurs privés, dépôts de l’Etat et achats de la Ville complétèrent progressivement ce fonds. 




La Ville de Reims acquit, en 1908, le grand séminaire désaffecté installé dans les bâtiments de l’ancienne abbaye Saint-Denis, pour y transférer le musée en 1913 ; c’est cet emplacement qu’il occupe encore aujourd’hui et qui correspond en partie au palais abbatial du XVIIIe siècle, remanié au XIXe siècle.

Le musée des Beaux-arts de la Ville de Reims conserve l’une des plus prestigieuses collections des musées de France établis en région. 



Il illustre ainsi les plus grands mouvements artistiques d’une période allant du XVIe au XXe siècle, à travers peintures, sculptures et aussi mobiliers et objets d’art. 

Trop à l’étroit dans le bâtiment actuel, le musée doit déménager dans une architecture conçue par David Chipperfield, à côté des Halles du Boulingrin.


Les collections :


Rez-de-chaussée 

Salle Gérard - XXe siècle

Enrichie grâce à la politique d’acquisitions du musée, elle comporte quatre sections qui entretiennent, pour trois d’entre elles, un riche écho avec le patrimoine rémois. 
Une place importante est donnée à la multiplicité des techniques artistiques : peinture, sculpture, dessin… 


Les prémices de la modernité : avec Paul Gauguin, les Nabis et les symbolistes (Edouard Vuillard…) ; le fauvisme (Henri Matisse, Albert Marquet…) ; le cubisme (Louis Marcoussis, André Lhote).

L’Art déco : Paul Jouve, Jean Dunand, François-Louis Schmied…
 
Le dadaïsme, le Grand Jeu et le surréalisme 
Georges Ribemont-Dessaignes, Joseph Sima, Artür Harfaux, Maurice Henry sont les points forts de cette collection. 
Dans cette section, un espace dévolu à Maurice Henry, met en valeur toutes les facettes de sa démarche. 
Une partie de son fonds d’atelier a été acquis récemment.

L’Abstraction après 1945 : Vieira da Silva, Michel Seuphor, Serge Charchoune, Karl-Jean Longuet… 

Chagall, la chute d'Icare
 

Des dépôts exceptionnels : des œuvres sont déposées par le Musée National d’Art Moderne, Centre Pompidou / CCI : Joseph Sima, Midi ; Jindrich Styrsky, Paysage d’échecs ; Serge Charchoune, Mozart divertimento K.138.
Pour parfaire la section Art déco ont été déposées deux œuvres monumentales de François-Louis Schmied, L’Idole et L’Ile Enchantée, par le Mobilier National.
Depuis l'été 2013, "la salle à manger" d'Emile Gallé est présentée dans un espace spécifique dédié à Henry Vasnier, rappelant l'importance de l'Art nouveau pour ce  grand collectionneur et donateur rémois qui militait à la fin du XIXe siècle pour un nouveau musée.   
Dans l'escalier d'honneur
Un série de grands formats religieux restaurés, de Jean et Jacques Hélart, est présentée au public et mise en valeur par les couleurs de l'escalier.

 

Premier étage


Salle Monthelon - Grands formats - XVe-XXe siècles

En attendant un nouveau musée, des peintures de grandes institutions nationales et régionales sont exposées et préfigurent la future salle XXe siècle.
Ainsi, du musée national d’Art moderne, sont présentées dans cette salle : L'Apocalypse de Tsuguharu Léonard Foujita, une œuvre impressionnante de Matta, Trans-apparence du Verbe, des peintures de Léon Zack, Composition, d’André Masson, Marécage et de Raoul Ubac, L’Arrière-saison
La plupart de ces œuvres des collections nationales rappellent la présence incontournable à Reims de l’art de l’entre-deux-guerres et de l’art abstrait des années soixante.  De plus, Reims est une ville essentielle pour Tsuguharu Léonard Foujita qui, après avoir été membre de l’Ecole de Paris durant les années vingt, privilégie l’art sacré et se convertit au catholicisme en 1959 en la cathédrale de Reims. 

Dans ce cadre, sont présentées trois œuvres du musée d’Art moderne de la Ville de Paris - La Crucifixion, La Descente de croix et L’Apocalypse, illustrant la fin de sa carrière.
Concernant les Années folles et l’Ecole de Paris, deux diptyques monumentaux composés de quatre « grands fonds blancs » déposés par le Conseil général de l’Essonne - son manifeste - mettent en lumière sa capacité à hybrider l’histoire européenne de l’art, la tradition japonaise et les années Art déco. 
A voir aussi, sa chapelle Notre-Dame-de-la-Paix qu’il offre en 1966 à la ville et qui se révèle être son testament artistique.
Les toiles peintes des XVe et XVIe siècles exposées initialement dans cette salle vont faire l’objet d’un chantier de restauration exceptionnel et minutieux qui  a conduit la Direction du Musée à les décrocher. 

Seule L'Indienne de l’artiste contemporain Gérard Garouste réalisée en vis-à-vis de ces toiles est présentée. 
Cette œuvre est déposée par le Fonds régional d’Art contemporain Champagne Ardenne dans le cadre d’un partenariat destiné à développer le dialogue art ancien/art contemporain. 

Enfin, l’espace dévolu initialement aux treize dessins de Cranach L’Ancien et Le Jeune (tous décrochés pour restauration) présente aujourd’hui une sélection de vitraux du XXe siècle achetés par la ville de Reims avec le soutien du Fonds régional d’acquisition des musées (FRAM) ou déposés par le FNAC / CNAP. 

 

Ce fonds constituera l’une des sections originales du futur musée. 

Les portraits des Cranach seront quant à eux restaurés et remis en valeur.